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Cia: “I foreign fighters italiani? Vivono ancora con i genitori”

Is (IS) – Dopo ogni nuovo attentato in Europa, una domanda riecheggia nel Belpaese: Perché dallʼItalia non arriva lo stesso contributo di foreign fighters che dagli altri paesi europei? Alcune possibili risposte: miglior prevenzione? Miglior repressione? Il ministro Alfano ha imparato a fare il suo lavoro? Niente di tutto ciò. Ce lo svela la direttrice della CIA per gli affari italiani, Mariatangente Smith&Wesson da New Locri Lake (provincia di Brooklyn). Ecco i passaggi più significativi della sua relazione intitolata “Diventare foreign fighter, vivere a quarantʼanni con 8 coinquilini in 60 metri quadri e altre possibilità da cogliere per i giovani italiani in cerca di lavoro”.

“Il problema maggiore – denuncia la direttrice – è lʼindeterminatezza lavorativa, che non permette ai giovani di trovare la loro strada, tanto più se si tratta di scelte estreme come la jihad, il fondamentalismo islamico o il mutuo decennale”. Prosegue la sua lucida analisi: “Ironia della sorte, ciò che impedisce ai ragazzi pacifisti ma anche ai guerrafondai di affermarsi ha la stessa causa, ma con due effetti diversi: la precarietà lavorativa. I primi non raggiungono lʼindipendenza né possono assumersi impegni a lungo termine perché in assenza di busta paga riescono a racimolare solamente contratti di lavoro a 3-6-9 mesi, mentre per i secondi questi contratti sono già troppo lunghi. La radicalizzazione ha tempi molto ristretti e veloci: dalla visione del primo video su Youtube alla decisione di arruolarsi nellʼIsis passa al massimo un mese/un mese e mezzo, quindi anche un contratto a 3 mesi sembra troppo per chi muore dalla voglia di morire. E non accentando questi lavori, sono costretti a vivere in casa con i genitori”.

Emerge però anche qualche vantaggio: “Essere jihadisti-bamboccioni non ha solo lati negativi, ma può contribuire allʼapporto di know-how e creatività. Infatti viene da qui una delle nuove armi batteriologiche usate sui confini di guerra: la borsa del calcetto chiusa da una settimana.”

L’agenzia ha seguito la vita quotidiana di un foreign fighter italo-italiano di 37 anni (per motivi di privacy non riveleremo il nome ora, ma tra qualche rigo) durante la preparazione di un esplosivo nella sua cameretta. Mentre mette a punto lʼordigno, si vede interrompere da sua madre: “Bello a mammà, questa bomba la vedo un poʼ sciupata, mettici più polvere da sparo”. “Uè a mammà, tra uno sparo e lʼaltro me la fai una telefonata per sapere come stai?”. “Questo giubbotto antiproiettili lo vedo un poʼ leggero, vedi che fa freddo lì. A proposito: ti ho preso la crema solare, hai visto che sole che cʼè là? Mica ti vuoi scottare prima di farti esplodere?”.

Lʼaspirazione massima di ogni kamikaze è quella di andare a farsi esplodere per la causa. Un compito in teoria facile da perseguire (certamente più facile che parlare con un operatore del servizio clienti Wind), che però è diventato praticamente impossibile da portare a termine per i foreign fighters italiani, che non riescono a conciliare i doveri della guerra santa con la regole ferree della vita in casa con la mamma. Un retaggio culturale, questo, che nemmeno lʼIslam più radicale è riuscito a estirpare e che si scontra col principale comandamento genitoriale “Vai pure a giocare alla guerra ma non sudare”.

Vana ogni obiezione: “Come faccio a non sudare nemmeno un poco con 10 chili di tritolo addosso!?” ha sbottato Gennaro Milik-Marek-Diego-Armando-Ghoulam Pascale, fervente boy scout fino all’espulsione, poi ultras del Napoli, che con le idee un poʼ confuse aveva sperato nella sua nuova identità islamica per poter aggirare la misure restrittive del Daspo piombategli addosso, col risultato che prima non poteva più andare allo stadio e ora è in carcere con lʼaccusa di terrorismo internazionale e rischia lʼergastolo.

G.M.M.D.A.G. Pascale non si sconforta e dallʼaula del tribunale che lo vede imputato confida: “Il carcere non è tanto diverso che vivere con i genitori: pranzo, cena, tv, biancheria pulita. Anzi, in carcere non ti fanno nemmeno pesare che non contribuisci alle spese comuni”.

di Adelmo Monachese e Mattia F. Pappalardo